Ponte Missioni – Ottobre 2016
Meno no e più sì
Tempo di esilio, il nostro. C’era una volta il tempo in cui il cristianesimo in Europa era la religione di tutti. Essere cristiani era un motivo di sicurezza e di prestigio sociale. Eri dalla parte della maggioranza, dalla parte più forte. Oggi, quel tempo non c’è più. Da cristiani spesso ci sentiamo spiazzati, “fuori-dalla-piazza”. In minoranza. In esilio. Quello in cui noi crediamo, agli altri dice poco o niente. Le nostre scelte vanno continuamente motivate e giustificate davanti ai nostri vicini di casa. Ai nostri colleghi di lavoro. Ai nostri figli che ci chiedono perché gli altri non fanno così. La storia non si ripete mai, ma siamo un po’ anche noi come gli ebrei esuli a Babilonia: una minoranza insignificante. Avevano perso tutto. Il tempio, ridotto a una sterpaglia. Gerusalemme, a pietra su pietra. Il re e i sacerdoti, una classe azzerata. La parola di Dio, ammutolita. Il popolo eletto, come una vallata colma di tombe. Tra parentesi: quando la fede degenera nel grigio pragmatismo di una vita quotidiana non più ‘salata’ dal Vangelo, allora “si sviluppa una psicologia della tomba che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo” (Francesco).
Eppure – tornando all’esilio babilonese – fu proprio quello il tempo di maggiore vitalità nella storia di Israele. Lo Spirito del Signore soffiò forte e il popolo di Dio uscì dalle tombe: un vero risorgimento. Esilio, non come punizione e morte, ma come purificazione e risurrezione. È quanto sta accadendo ai nostri giorni. Oggi il cristianesimo torna ad essere scelto. Da adulti. Un evento spiazzante per gli occhiuti custodi della secolarizzazione dura e pura, per i quali si è liberi quando si sta nel mercato, che decide per te il miglior menù (anche religioso) e poi non solo ti scippa la libertà, ma si inghiotte perfino il tuo inconscio con l’illusione del “fai-da-te”. Ma allora, l’evento di un adulto che sceglie la sequela di Cristo, non dovremmo celebrarlo come una vittoria della libertà sul mercato?
Sì, tempo di missione, il nostro. Ma quali conversioni ci occorrono per passare da una missione parlata a una missione vissuta? Eccone alcune. Meno routine, più creatività. Meno maestri, più testimoni. Meno clericalismo, più sinodalità. Meno indottrinamento, più discepolato. Meno condanne, più convivialità. Meno corsi, più percorsi… Meno no, per non ridurci a vivere una fede al minimo. Più sì, per uscire e andare verso la grande meta: il regno di Dio.
Mons. Francesco Lambiasi
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